Oggi, in occasione della Giornata Mondiale per i Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, ho deciso di pubblicare un nuovo articolo.
In questa giornata si celebra il giorno in cui l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò nel 1989 la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.
Si potrebbe parlare davvero di tante cose, sul tema dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, ma siccome nel mio lavoro mi occupo principalmente di genitori con bambini in età prescolare, mi vorrei concentrare in particolar modo su questa fascia di età.
Con questo proposito, cito l’articolo 19 della convenzione, ovvero il diritto dei bambini ad essere tutelati contro ogni forma di violenza.
Art. 19 “gli stati parti adottano ogni misura legislativa, amministrativa, sociale ed educativa per tutelare il fanciullo contro ogni forma di violenza, di oltraggio o di brutalità fisiche o mentali, di abbandono o di negligenza, di maltrattamenti o di sfruttamento, compresa la violenza sessuale, per tutto il tempo in cui è affidato all’uno o all’altro o a entrambi i suoi genitori, al suo rappresentante legale oppure a ogni altra persona che abbia il suo affidamento”.
Tuttavia, se in alcuni casi le forme di violenza sono evidenti e riconosciute da tutti come tali, in altri invece lo sono molto meno e, anzi, alcune forme di violenza non vengono ancora ritenute tali da tutti.
Di cosa sto parlando?
So che per alcuni genitori/educatori sembrerà strano, ma sto parlando della sculacciata data di tanto in tanto, dello schiaffo, degli strattonamenti, della sberla che viene data dal genitore quando il figlio si comporta “male”, non ascolta, fa qualcosa di sbagliato, ecc.
Ma non solo di questo; parlo anche di violenza psicologica (ma in ogni caso il corpo e la mente sono collegati, quindi una forma di violenza fisica ha ripercussioni anche sotto la sfera psicologica) come le aggressioni verbali, le minacce, le ridicolizzazioni, gli insulti, l’isolamento dal bambino da parte del genitore…
So che per molte persone è difficile considerare questi gesti violenti, sia perché, spesso, per violenza intendiamo gesti molto più eclatanti, sia perché per alcuni vengono considerati come metodi educativi, mentre per altri diventano delle alternative quando proprio non si sa cos’altro fare.
Allora occorre, prima di tutto, capire cosa vuol dire “violenza” e cosa vuol “dire educare”.
“Violenza” deriva dal latino “violare”, cioè “infrangere i limiti” della volontà altrui. E’ una forma di abuso di potere e controllo.
Consiste in un’azione fisica o verbale, tramite la quale si annulla la volontà di un’altra persona.
A tale proposito, riporto il commento generale n.13 che l’ONU ha emanato col fine di specificare l’art 19 (sopra riportato) e quindi cosa sia considerato violenza contro i bambini.
“Tutte le forme di violenza contro i bambini, per quanto lievi, sono inaccettabili…La frequenza, la gravità del danno e l’intenzione di produrre danno non sono prerequisiti per le definizioni di violenza. Gli stati parti possono fare riferimento a tali fattori nelle strategie di intervento, al fine di individuare risposte proporzionali a perseguire il miglior interesse del bambino. Ma le definizioni di violenza non devono in alcun modo ledere il diritto assoluto del bambino alla dignità umana e all’integrità fisica e psicologia, descrivendo alcune forme di violenza come legalmente e/o socialmente accettabili. (Committe on the rights of the child, general comment n.13: The right of the child to freedom from all forms of violenze. United nations 18 aprile 2011).
Cosa ci dice questo commento dell’ONU?
Ci dice che anche le forme di violenza più lievi sono comunque una violenza.
Dice anche che, un atto può essere violento anche se non prodotto con intenzionalità, e a prescindere dalla gravità e dalla frequenza.
Perché? Perché anche la sculacciata data di tanto in tanto, o l’allontanamento del bambino, le urla o altre punizioni, sono considerate una forma di violenza?
Non è tanto l’atto fisico in sé della sculacciata, della sberla o dello strattonamento (nel caso delle punizioni corporali, che comunque fanno male fisicamente) o delle urla spaventanti, delle minacce, o delle privazioni (nel caso delle punizioni non corporali).
E’, piuttosto, la modalità di relazionarsi con il bambino (veicolata tramite le punizioni) che diventa un atto di violenza, cioè un atto in cui si tenta di annullare la volontà dell’altro.
Le urla, le minacce, la sculacciata, ecc. diventano un modo per mantenere il comando sul bambino, dal quale si esige l’obbedienza: queste veicolano una modalità autoritaria tipica delle relazioni gerarchiche nelle quali una persona è superiore rispetto ad un’altra che è inferiore.
Ma il bambino è inferiore all’adulto solo perché è ancora immaturo dal punto di vista psico-evolutivo?
La parola “Educare”, invece, deriva dal latino “Educere” che significa “tirare fuori” o “condurre fuori”.
Quindi:
“Educare” un bambino significa condurlo verso l’acquisizione e lo sviluppo di tutte le sue facoltà, con l’obiettivo di guidarlo verso l’acquisizione della propria autonomia e verso l’inserimento nel mondo sociale.
“Educare”, allora, non significa “comandare”, ovvero esigere un determinato comportamento da un bambino, con ogni mezzo possibile.
“Educare” non significa “punire”,
soprattutto perché, come emerge in diversi studi, è stato evidenziato che le punizioni non sono funzionali per l’acquisizione dell’autonomia del bambino (che è l’obiettivo dell’educazione) né per il suo benessere psicofisico.
Anzi, un rapporto del 2014 dell’Unicef, che si basa su dati provenienti da diverse nazioni del mondo (54), afferma che:
le punizioni a cui sono sottoposti i bambini sono la forma più comune di violenza.
Punizione sia di tipo fisico (corporale) che psicologico (non corporali).
Le punizioni, allora, potrebbero essere efficaci nel favorire l’obbedienza ma non l’educazione, se per educazione si intende lo sviluppo dell’autonomia del bambino.
Infatti, il comportamento che cambia in seguito alle urla, o alla sculacciata, o al rimprovero, ecc. non è dovuto al fatto che il bambino ha compreso lo sbaglio e la conseguenza delle sue azioni.
Perché?
Perché, in età prescolare il bambino ancora non riesce a comprendere la connessione tra causa ed effetto, non capisce la conseguenza delle sue azioni. Se utilizziamo delle modalità punitive, il comportamento del bambino cambia, sul breve termine, per lo spavento, la paura o il dolore.
“Però almeno sul momento funziona!”
Si, ma a che prezzo?
Spesso le punizioni non tengono conto della dignità e del rispetto del bambino come persona, per quanto piccolo sia; un bambino che non sa difendersi e non è in grado di dire al proprio genitore che sta sbagliando.
Un bambino non riesce a dire: “Mamma mi stai spaventando, mi fai paura! “, quando urli forte davanti a lui puntandogli contro il dito.
Non riesce a dirti “Papà mi stai mortificando con le parole e i gesti che usi”.
Non riesce a dirti “Maestra, non stai rispettando il mio bisogno di esprimere le emozioni”.
Non riesce a dire “Perché non ascolti quello che provo e mi obblighi a fare a così?”.
So che molti non saranno d’accordo, pur leggendo i commenti dell’Onu, dell’Unicef, ma ci sono delle evidenze scientifiche sull’inefficacia e sugli effetti negativi per il bambino, dal punto di vista psico-evolutivo, delle punizioni (per chi vuole approfondire: Studio logitudinale del 2014 su child development, di M. wang, S. kenny, Studio del 2016 di Elizabeth T. Gershoff, Andrew C. Et all.) tra i quali una minore autostima, tendenza a diventare più aggressivi, a riprodurre i comportamenti aggressivi trasmessi dai genitori per risolvere i problemi, difficoltà nel rapporto genitore-figlio, nell’espressione dei propri vissuti; inoltre mortificano e spaventano il bambino, sono inefficaci rispetto all’obiettivo che si prefiggono i genitori (se l’obiettivo è far capire lo sbaglio commesso), e in età adulta predicono con maggiore probabilità (in particolar modo le punizioni corporali) disturbi dell’umore, della personalità, comportamenti antisociali e abuso di alcol e droghe.
Per scardinare metodi che ci hanno sempre accompagnato, e che ci portiamo dietro dalla nostra storia infantile, occorre fare un lavoro prima di tutto su di sé, e occorre conoscere lo sviluppo e i bisogni dei bambini, e trovare metodi alternativi alle punizioni, che sono sempre state usate.
Alcuni di voi, invece, vorrebbero evitare di utilizzare le punizioni all’interno della relazione educativa ma, nei momenti di maggiore emotività dell’adulto, queste modalità punitive “scattano” come un “click” quasi inevitabile.
Lo so, è faticoso, mi confronto con queste modalità che vorrebbero prendere il sopravvento tutti i giorni, nel lavoro quotidiano come educatrice.
Quando la rabbia e l’esasperazione superano certi livelli, è quasi come se le punizioni, gli strattonamenti, le sculacciate, le urla, le minacce, ecc. venissero in automatico da chissà dove.
Che cosa si può fare allora?
Il primo step è sempre quello di fermarsi un attimo, osservare e diventare consapevoli.
Sapere che queste modalità non sono funzionali, né dal punto di visto educativo (perché educare vuol dire guidare una persona verso la propria autonomia, piuttosto che comandare o obbedire), né tanto meno dal punto di vista del benessere psicofisico, può aiutare noi adulti a fermarci e a chiederci se un determinato comportamento è utile per l’educazione del bambino.
Ma per fermarci e mettere un pensiero su quello che facciamo, dobbiamo prima riuscire a contenere e regolare le nostre emozioni.
Lo so, è uno dei lavori più difficili al mondo da fare, perché per educare bisogna prima fare un lavoro su di sé.
È proprio qui che sta la fatica.
Gestire prima di tutto le nostre emozioni e le nostre reazioni.
Mettere in discussione quello che abbiamo sempre visto fare dalla maggioranza.
Capisco la fatica di chi dice: “Una sculacciata ogni tanto non fa male”, perché si arriva in certi momenti a non sapere più come fare, a non riuscire a gestire le proprie emozioni e quelle del bambino, quasi come se non ci fossero altre alternative.
Capisco anche chi sostiene che la sculacciata o le punizioni siano metodi educativi, perché questo gli è stato trasmesso dai propri genitori, così come a me, e dai genitori dei nostri genitori e così via, con la migliore delle intenzioni ma con poche conoscenze sui bisogni e lo sviluppo dei bambini.
Allora vorrei proporvi delle riflessioni su questo tema, intanto chiedendovi…
Se le punizioni sono davvero metodi educativi non violenti, in particolar modo quelle corporali, perché le insegnanti/educatori delle scuole non possono utilizzare punizioni corporali, come sculacciate ecc. (e ci sono leggi che lo vietano in Italia), ma invece un genitore può utilizzare queste modalità sul proprio figlio?
Allora l’educatore non può educare con questi metodi ma i genitori si?
Dove sta la differenza?
È forse più lecito dare punizioni (in particolar modo quelle corporali) se è un genitore a farlo? Perché quello è il “suo” bambino?
Altre domande utili:
Come vi sentivate da bambini quando vi mettevano in punizione?
Quali erano le punizioni che dovevate subire dai vostri genitori? E a scuola?
Qual è la punizione che vi ricordate molto bene ancora oggi?
Quando punite vostro figlio, sia punizione corporale (come sculacciate), sia punizione non corporale (come minacce, comandi, urla, ecc), come vi sentite?
Spero di aver dato utili spunti di riflessione, non con l’obiettivo di giudicare ma, con l’obiettivo di fare chiarezza, e favorire maggiore consapevolezza!